
John Everett Millais
Ofelia
1851-1852
olio su tela
Tate Gallery, Londra.
“C’è un salice che cresce storto sul ruscello e specchia le sue foglie canute nella vitrea corrente; laggiù lei [Ofelia] intrecciava ghirlande fantastiche di ranuncoli, di ortiche, di margherite, e lunghi fiori color porpora cui i pastori sboccati danno un nome più indecente, ma che le nostre illibate fanciulle chiamano dita di morto.
Lì, sui rami pendenti mentre s’arrampicava per appendere le sue coroncine, un ramoscello maligno si spezzò, e giù caddero i suoi verdi trofei e lei stessa nel piangente ruscello.
Le sue vesti si gonfiarono, e come una sirena per un poco la sorressero, mentre cantava brani di canzoni antiche, come una ignara del suo stesso rischio, o come una creatura nata e formata per quell’elemento. Ma non poté durare a lungo, finché le sue vesti, pesanti dal loro imbeversi, trassero la povera infelice dalle sue melodie alla morte fangosa.”
(Amleto, Atto IV, scena VII)
Ofelia è un dipinto di John Everett Millais, pittore inglese dell’Ottocento che fu tra i fondatori della corrente dei preraffaelliti, conservato presso la Tate Gallery di Londra.
L’opera si ispira alla morte di Ofelia, uno dei personaggi femminili principali della tragedia Amleto di Shakespeare, la cui tragica vicenda ha avuto grande fortuna presso pittori ed artisti dell’Ottocento, come lo stesso John Everett Millais, Arthur Hughes, John William Waterhouse e Richard Redgrave.
Ofelia, lacerata nel profondo e divenuta folle per il rifiuto d’amore da parte di Amleto e per l’assassinio del padre Polonio ad opera dello stesso, termina la sua esistenza cadendo ed annegando nella vitrea corrente di un ruscello, presso la cui riva stava cogliendo dei fiori.
Millais raffigura la sua Ofelia appena caduta come una fragile ed esile creatura abbandonata e quasi cullata dalle acque del fiumiciattolo. Le mani contratte dal freddo della morte, stringono ancora quei fiori appena colti che ora l’accompagnano nel suo ultimo viaggio. Essa stessa appare come un fiore appena reciso, una ninfea candida e pura che non oppone resistenza al suo tragico destino.
In questo ultimo anelito di vita Ofelia finisce per immergersi e confondersi con la rigogliosa natura che la circonda, la veste gonfia dall’acqua, la vegetazione che la ricopre, una metamorfosi in atto, un’unione con la natura stessa nel suo ultimo istante di vita.
Il volto che emerge dall’acqua, pallido ed etereo, perso in una dimensione trascendentale, la bocca semiaperta, come ad intonare un ultimo canto, il corpo che non oppone resistenza, abbandonato al suo tragico destino, tutto è volto a creare un languido contrasto che lega tra loro amore e morte. Una morte forse voluta per sfuggire al dolore lacerante di un amore non corrisposto. Gli elementi stessi della natura circostante sono caricati da un forte valore simbolico: un ramo di salice piangente che rappresenta l’amore non ricambiato, tra le cui foglie si intravede come in un’illusione ottica un teschio, il pettirosso simbolo di vita e di morte, i nontiscordardime che galleggiano nell’acqua, simbolo di una vita infelice e presto recisa, le foglie di ortica e l’adonide, simboli del dolore, la fritillaria simbolo della morte, come le viole attorno al collo della fanciulla e il Papaver somniferun, i cui semi contengono morfina e codeina, simbolo del sonno e della morte, ma anche sedativo dal dolore di una vita infelice. Infine appaiono anche le cosiddette dita di morto, un’orchidea purpurea che simboleggia la passione e l’amore, causa stessa che ha portato Ofelia alla pazzia e alla morte. Una morte da santa e martire, ma anche da eroina del passato, nell’abbandonarsi contemporaneamente inerme e consapevole al proprio destino.
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L’autrice
Cecilia Scalella nata a Firenze, laureata in Storia dell’Arte Medievale presso l’Università degli Studi di Firenze nel 2000 con il prof. Miklòs Boskovits.
Ha effettuato alcune pubblicazioni sulla pittura fiorentina di secondo Trecento.