La morte e il morire


Credo che dovremmo prendere l’abitudine di pensare ogni tanto alla morte e al morire, prima di incontrarla nella nostra vita personale.”
Elizabeth Kübler-Ross

L’esperienza dell’avvicinamento alla morte è indubbiamente un’esperienza soggettiva, dipende innanzitutto dallo stato di salute, dalla cultura di riferimento, dalla società in cui si è inseriti, dall’educazione, anche in particolar modo religiosa, che abbiamo ricevuto, dall’esperienza vissuta davanti alla morte altrui; ciò che è certo è che nessuno di noi ha conoscenza della propria morte, nessuno può appellarsi all’esperienza personale per affrontare questo inevitabile evento, e, dunque, il rimuoverne l’idea, il procrastinare costante della coscienza della propria finitezza non fa che rendere maggiormente traumatico il momento in cui dovremo affrontare l’inevitabile.

È nota la spaccatura netta che vi è tra tradizione occidentale ed orientale nella visione della morte, la religione l’ha da sempre influenzata e, se in Oriente, apparentemente non vi è stato nei secoli un cambiamento sostanziale di pensiero, l’Occidente “cristiano” è stato teatro di grandi variazioni dovute alle tante contaminazioni culturali e religiose ricevute: l’arcaico culto dei morti lasciò spazio al terrore dei morti, le cui anime tornavano in forma di spettri a tormentare le notti dei vivi; i corpi prima cremati e celebrati, vennero poi ammassati in fosse comuni, a meno che non si trattasse di cadaveri di uomini facoltosi o degni di memoria; nel Medio Evo all’inferno e al paradiso si aggiunse il purgatorio, l’ossessione del giudizio era sempre più forte per chi si avvicinava alla fine e riguardava indietro facendo la conta  dei peccati commessi; dal 1800, sia per la necessità di separare i luoghi di sepoltura dai centri abitati, che per uno struggimento romantico e retorico, il volto dei cimiteri muta, vengono posti alle porte dell’urbe, assumono l’aspetto di un vero e proprio villaggio, statue angeliche e marmoree vengono poste a guardia delle tombe riqualificandone l’aspetto, il morto non fa più paura e dà l’idea di restare comunque tra noi sia che sia in forma di spirito che di ricordo: è il fenomeno che Ariès chiama “La morte dell’altro”[1]. Arrivando infine ai giorni nostri, si è, in definitiva, assunto davanti alla morte un comportamento socialmente isterico, “affrontamento di panico in un clima d’angoscia, di nevrosi, di nichilismo… aspetto di una vera e propria crisi dell’individualità di fronte alla morte”[2]; la proibizione assoluta del suo pensiero, il nichilismo totalizzante dell’ateismo radicale, che ci vede corpi di un macrosistema biologico dove l’idea romantica di anima immortale non ha spazio, si alterna alla diffusione predominante del buddismo, ma anche di altre religioni orientali, o della new age, dove la credenza nella reincarnazione ha di gran lunga attutito il pensiero della finitezza della vita, scalzando il concetto di resurrezione che non era mai riuscito a fare altrettanto: un conto è “tornare a vivere”, in un mondo che conosciamo, con le modalità che conosciamo, con lo scopo di redimerci dagli errori commessi nelle vite precedenti, un altro conto è ritrovarsi in un luogo altro, sconosciuto, per quanto descritto come meraviglioso, ma da cui nessuno è mai ritornato per raccontarcene le bellezze. L’instabilità e l’alternarsi di tutte le congetture fatte sull’immaginario del dopo vita, hanno sicuramente giocato un ruolo importante nella tendenza a tenerne quanto più lontano possibile il pensiero, ma la sconfitta di molte di malattie, il conseguente aumento dell’età media e del numero di anziani, che abbiamo visto concretizzarsi nell’ultimo secolo, ha reso urgente per il morente, e per chi lo accompagna, l’identificazione di un metodo di approccio clinico e, allo stesso tempo, psicologico per il fine vita.

Il pensiero di riferimento oggi sembra non essere più tanto cosa c’è dopo la vita, bensì come vivere al meglio gli ultimi giorni che restano, perché, recuperando il pensiero di Epicuro, finché siamo vivi, la morte non c’è. 

Se fino al secolo scorso al letto del morente si incontravano il prete e il dottore, oggi vi si incontra sempre più spesso un team composto da medici, infermieri, fisioterapista, cappellano e psicologo; la tanatologia, che studia la morte sia come fenomeno fisico, nei mutamenti biologici e fisiologici che apporta al corpo cadaverico, sia come fenomeno antropologico, ricercando le diverse usanze e tradizioni che la celebrano, si arricchisce nella seconda metà del secolo scorso del termine “psicologica”: tanatologia psicologica, o psicotanatologia, che studia i diversi e possibili procedimenti di accompagnamento psicologico del morente. Di questa disciplina, fu fondatrice la psichiatra svizzera Elizabeth Kübler-Ross, la quale applicò il suo metodo nei primi hospice negli Stati Uniti.

Nella prefazione al suo “La morte e il morire” Elizabeth Kübler-Ross mette subito a fuoco la nuova prospettiva del trattamento medico e psicologico: l’interesse non è per la malattia, ma è per il malato in quanto persona: “Gli abbiamo domandato di essere nostro maestro in modo che noi potessimo imparare qualcosa di più sulle tappe finali della vita con tutte le sue ansie, timori e speranze.” [3] Il morente, non più solo paziente, ma persona, torna protagonista della propria vita.

Tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, almeno in alcuni ambiti medici, la consapevolezza che la vita ha una fine diventa il nodo centrale della dissertazione. L’educazione alla morte ha subito nel tempo grandi variazioni, Phillippe Ariès in “Storia della morte in Occidente” ricorda che “Il morente non doveva essere privato della sua morte. Doveva anche presiederla. Come si nasceva in pubblico, così si moriva in pubblico”[4] … “fino al XVIII secolo, non esiste immagine di una stanza di agonizzante senza qualche bambino.”[5] Nel XX secolo invece, nell’era della tecnologia e della modernità, ai bambini si raccontano favole rassicuranti e si tengono lontani dalla celebrazione di funerali e ricorrenze della morte, nell’inutile tentativo di non turbare il loro pensiero; quando un caro muore, sparisce semplicemente dalla loro vita materiale, al fanciullo viene detto che adesso è “andato in luogo migliore”, nel vano tentativo di tranquillizzare i suoi pensieri che invece, inevitabilmente, ne rimangono ancor più turbati: qual è questo posto migliore? Dov’è? Perché è tanto bello ma tutti piangono e sono tristi? I bambini sono inesperti, non stupidi.

Fintanto che il moribondo ha potuto svolgere il proprio ruolo nella propria casa, circondato da familiari e amici, la morte è sempre stata vissuta come un qualcosa di naturale, un passaggio obbligato che doveva essere partecipato dalla comunità; spesso il morente, in questo frangente, dava le sue ultime disposizioni, rassicurandosi che il suo volere sarebbe stato portato avanti anche in sua assenza, venivano ricordati i momenti salienti della sua vita, così che venisse rassicurato sulla “non perdita” della sua memoria, a volte si poteva anche far finta che la morte non stesse arrivando, ma era una finzione a cui tutti erano consapevoli di partecipare, era un gioco collettivo a cui di solito metteva fine il morente stesso, che viveva il suo ultimo momento come il consolidamento di tutto il suo percorso di vita, l’ultima esperienza performante da vivere. Fino ad oggi invece la tendenza è, in primo luogo, quella di tacere l’approssimarsi della morte, come scrivono Glaser e Strauss in “Awareness of dying”, la tendenza da parte dei medici, come anche dei familiari, è quella di non avvertire il morente della propria condizione, il quale viene sino alla fine rassicurato sulla possibilità di cura, i familiari stessi si appelleranno ad ogni possibilità per scongiurare l’inevitabile; spesso tutti fingono di non sapere, per propria tutela e per quella altrui, in un’infinita commedia delle parti in difesa “dalla brutta realtà”. Nella società del benessere non si può lasciar adito alla tristezza e all’angoscia, nella gran parte dei casi, con la finzione si giunge accompagnati sino a quando l’evidenza ci obbliga a rendere palese la triste verità, a meno che non sopravvenga per prima la morte, e con gran sollievo di tutti si potrà sentir dire –Per fortuna non si è accorto di niente-. Da protagonista-eroe, il morente, diviene, nella società industrializzata, una vittima inconsapevole. In secondo luogo, da quando il passaggio viene vissuto in ospedale o in un hospice, in uno spazio estraneo, impersonale, riconosciuto come luogo di malattia e morte, questa non viene più partecipata, bensì, anche in questo caso, subìta, guidata da macchine e da personale esperto che condivide informazioni con il paziente e con qualche familiare, solamente con i più vicini. Spesso il moribondo trapassa in solitudine, nell’abbandono, così che già il varcare la soglia del nosocomio, dà al degente l’idea di aver fatto un passo verso una triste fine, che niente ormai ha più senso e valore, la depressione o l’angoscia improvvise e impetuose divengono i problemi fondamentali di chi ancora possiede le proprie funzioni cognitive.

La morte è dunque diventata il maggior tabù del XX secolo, superando di gran lunga il sesso, ci dice Geoffrey Gorer.[6] “Il lutto, quindi, non è più un periodo necessario, di cui la società impone il rispetto, è divenuto uno stato morboso che bisogna curare, abbreviare, cancellare”[7]. Le manifestazioni di disperazione e lutto non sono più ammesse, il dolore è meglio se espresso in privato, in solitudine. La sofferenza, che ha anche perduto il suo valore salvifico, viene pertanto repressa, e la sua elaborazione diventa difficile, così come il suo superamento.

Il tentativo di Elizabeth Kübler-Ross è stato proprio quello di ridare il giusto valore al vissuto degli ultimi giorni di vita, di ricollocare questo momento nel tracciato dell’esperienza, sottolineando il valore della “scienza delle relazioni interumane”, meno tecnologia e più umanità, il medico deve saper sì leggere e comunicare dati, ma anche supportare il paziente, accoglierne sì le speranze ma anche le paure e i bisogni.

Ma chi è che muore? Muoiono le donne e gli uomini, i bambini, gli adulti e gli anziani, giovani malati terminali, anziani che si spengono per malattie croniche, per demenze, o perché la vita ha concluso il suo naturale corso. Le categorie sono dunque molte, e, se l’atteggiamento di fondo può essere il medesimo, ognuno ha bisogno di cure con sfumature diverse. Trattare un bambino oncologico non è lo stesso che trattare un anziano con l’Alzheimer o un adulto affetto da sclerosi laterale amiotrofica (S.L.A.). La consapevolezza del paziente è diversa, le speranze sono diverse, la percezione del dolore è diversa. Per non parlare poi di tutto l’universo esistenziale, del bagaglio personale di ogni paziente. Con l’avvento della medicina moderna, nel mondo industrializzato, molte malattie sono scomparse, per molte si sono trovate la cure adeguate, l’aspettativa di vita media è salita enormemente: in Europa è salita a 82 anni, negli Stati Uniti 80 anni, Canada 82 anni, Australia 82 anni e Giappone 89 anni (dati CIA World Factbook 2018), ma in questo panorama apparentemente e sicuramente ottimistico, dobbiamo considerare che molte malattie dell’età avanzata sono aumentate e il fatto che per esse non vi sia ancora una soluzione obbliga pazienti e medici ad affrontare condizioni di vita non ottimali per anni e il lento decadimento fisico e cognitivo, quella che possiamo considerare “l’anticamera” della morte, prolungata e sconosciuta. Quando non vi erano cure specifiche, il paziente che era affetto da cancro, da malattie neurologiche croniche o da sconosciuti “brutti mali”, periva in tempo mediamente breve, oggi, invece, che abbiamo a disposizione strumentazioni diagnostiche raffinate, terapie mirate per la stragrande maggioranza delle patologie e là dove la cura manca si hanno cure palliative che migliorano la qualità della vita di chi è destinato a morire, non significa che, chi è cosciente della gravità della malattia da cui è affetto, può essere anche consapevole di quanto tempo, più o meno, gli rimanga da vivere.

Ma torniamo all’esempio della pioniera della psicotanatologia: Elizabeth Kübler-Ross, quando decise di creare un metodo di accompagnamento per il malato terminale non aveva ancora uno schema preciso delle differenze di approccio con i diversi pazienti, lo costruì man mano che il caso le portava persone che avessero desiderio di raccontarsi negli ultimi momenti della propria vita. Proprio a causa dell’atteggiamento generalmente freddo e pudico, per non dire distaccato, che i medici avevano davanti alla morte, i primi tentativi di ricerca di pazienti non furono facili per Kübler-Ross, spesso si vide addirittura trattare con disprezzo, ma la perseveranza la pagò, nel giro di pochi anni furono i pazienti stessi a cercarla per partecipare ai suoi studi, Elizabeth Kübler-Ross ha fatto scuola per moltissimi medici e psicologi che in seguito hanno deciso di occuparsi di quella delicata fase che è il fine vita. Dopo di lei sono sorti istituti in tutto il mondo, ognuno con le proprie peculiarità, dove il fuoco comune era ed è ancora prendersi cura della persona, del paziente nella sua totalità, cercando di valorizzare la sua vita, di ascoltare i suoi bisogni e desideri, di identificare il miglior percorso per ridargli un’aspettativa, per quanto breve e finalizzata all’hic et nunc, al ridargli dignità.


[1] Phillippe Ariès, “Storia della morte in Occidente”, Milano, BUR Saggi, 2013

[2] Edgar Morin “L’uomo e la morte”, Roma, Meltemi, 2002.

[3] Elizabeth Kübler-Ross, “La morte e il morire”, Assisi, Cittadella Editrice, 2017, p. 13.

[4] Phillippe Ariès, “Storia della morte in Occidente”, Milano, BUR Saggi, 2013, p. 358.

[5] Phillippe Ariès, “Storia della morte in Occidente”, Milano, BUR Saggi, 2013, p. 45.

[6] Geoffrey Gorer, “Death, Grief and Mourning”, New York, Doubleday, 1963.

[7] Phillippe Ariès, “Storia della morte in Occidente”, Milano, BUR Saggi, 2013, pp.143.


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