Una morte dolcissima


Simone de Beauvoir (1964)

L’approccio con la morte, molto spesso, è sovrapposto all’approccio con il fine vita, la pre-morte, ossia il decadimento fisico e di frequente anche mentale, la malattia, il deterioramento della propria essenza e dei rapporti con il mondo circostante, e per ultima, la paura dell’ignoto, l’angoscia.

Quando mi capita di chiedere cos’è che spaventa maggiormente della morte, la risposta più frequente è: non ho tanto paura della morte, ma della sofferenza che si prova prima di giungervi.

Questo piccolo libro, “Una morte dolcissima” di Simone de Beauvoir, un centinaio di pagine di intensa descrizione del fine vita, ci fa entrare negli ultimi giorni di chi si sta avviando verso la morte e di chi lo accompagna, chi sta a fianco e sente sulla propria pelle lo smarrimento e il bisogno di fare, tenere il bene che quel rapporto ha rappresentato ed elaborare il male, per non provare in seguito rancori o rimorsi.


Anch’io ero divorata da un cancro: il rimorso. -Non permettete che la operino-. E io non avevo impedito niente. Spesso, vedendo un ammalato soffrire un lungo martirio, mi ero indignata per l’inerzia dei parenti: -Io, lo ucciderei-. Alla prima prova, eccomi indietreggiare.


 Ci si può opporre al parere di un medico? Si può prevedere la reazione di un corpo ad un trattamento? Si può togliere la speranza a chi vede la fine davanti a sé? Ovviamente no. Ma il rimorso permane, ci corrode, ci ricopre di “se” fino a soffocarci.

La madre della scrittrice viene operata per un cancro e la sua vita viene prolungata di trenta giorni, trenta giorni di sofferenza e patimento, per una donna che non accetta la fine e si aggrappa alla vita, non cedendo all’immagine della morte, sino all’ultimo refolo di fiato, griderà -Vita, vita, voglio vivere!-. 

Ma quale vita? Quella di un corpo segnato dalle piaghe, che –imputridiva da vivo-, un volto scavato ormai quasi irriconoscibile, un’esistenza confinata in un letto e sostenuta da morfina e calmanti, ma pur sempre vita, di carezze, di strette di mani che si cercano nell’affetto, di occhi che si parlano più delle parole, di cure, di comprensione, di presenza. Il possesso della propria esistenza è un grido che non si può interpretare, nel suo stesso sprigionarsi vive il da farsi. 

L’immagine di chi sta per morire modifica inevitabilmente l’immagine che abbiamo sempre avuto di quella persona: la fragilità, la dipendenza, la paura, la caparbietà, si sostituiscono allo stereotipo che si era consolidato in anni e decenni di vita; chi gli vive accanto inizia a porsi domande, a chiedersi il perché di tanti comportamenti o atteggiamenti, inizia un periodo di analisi e, se possibile, di giustificazioni. Francoise de Beauvoir non aveva avuto un’infanzia serena, aveva vissuto un rapporto conflittuale con i propri genitori e con la sorella minore, questo l’aveva formata come una madre tendenzialmente fredda, che portava conflitti tra le figlie, incapace di creare armonia in famiglia, era una donna conformista, dagli ideali borghesi, lontana dalla militanza e libertà della figlia Simone, ma col tempo aveva imparato ad apprezzarne il successo e l’emancipazione. I trenta giorni di martirio della madre, portano l’autrice a ripercorrere tutta la sua vita, cercando spiegazioni, giustificazioni, assoluzioni, per lasciarla andare senza incomprensioni, senza rancore.


Perché dare tanta importanza ad un attimo, dal momento che non ci sarà memoria? Ma non ci sarà nemmeno possibilità di riparare. Ho compreso per mio conto fino nel midollo delle ossa, che negli ultimi istanti di un moribondo si può racchiudere l’infinito.


Ma come mettersi in pace con le menzogne? Quando un moribondo chiede di essere guarito, chiede una cura, quale persona riesce ad essere duro e a rispondere – Non esiste nessuna cura? -. In questo libro la donna che sta per spirare chiede continuamente di poter vivere, di poter –Non perdere giorni– e gli anestetici vengono fatti passare per medicine, l’autrice, però, soffre per queste continue bugie, perché dover mentire? E’ più importante l’illusione dell’onestà?


Era il momento di farle un’iniezione piuttosto dolorosa, destinata, credo, a combattere la cattiva eliminazione dell’urea. Sembrava così sfinita che la signorina Leblon era esitante:- Fatela,-  Disse mamma. – Giacché mi fa bene-.  di nuovo la voltammo sul fianco; la sorreggevo, leggendole sul viso lo sgomento, il coraggio, la speranza, l’angoscia. – Giacché mi fa bene-.  Per guarire.  Per morire.  Avrei voluto chiedere perdono a qualcuno. 


Sebbene la morte sia inevitabile e sia l’unica certezza che abbiamo, è spesso vissuta come una profonda ingiustizia, perché ci porta via l’unica cosa che veramente possediamo, la nostra vita. Desiderarla è una cura per l’estrema sofferenza che possiamo provare, ma fino alla fine, la maggior parte dei mortali ha la speranza che qualche cosa occorra per salvarci, per riportarci alla possibilità di una guarigione.

Tutti gli uomini sono mortali: ma per ogni uomo la propria morte è un caso fortuito, ed anche se la conosce e vi acconsente, è un’indebita violenza.